La Valsusa tra politiche di speculazione, profitti e incuria del territorio

rimaflowadmin 16 Novembre 2017 Commenti disabilitati su La Valsusa tra politiche di speculazione, profitti e incuria del territorio

Di seguito un testo inviatoci da compagni/e del movimento NO TAV che  resiste agli scempi del territorio. Il testo, che è un estratto/anticipazione della rivista NUNATAK  N° 48, analizza le cause dell’incendio che hanno devastato la Valle ma anche il Piemonte in generale.  Una devastazione che si aggiunge a quella delle opere per i treni ad alta velocità. Se per gli incendi ci sono le concause di fattori climatici, di cui una parte riconducibili alle attività umane, dall’altra ritroviamo le solite politiche di speculazione, profitti  e  incuria per il territorio. Politiche che non mirano alla prevenzione ma unicamente alla “gestione” delle emergenze.

 

TERRA BRUCIATA

Riflessioni dal Piemonte in fiamme

Di Luca Giunti

A fine ottobre, in Valsusa e in Piemonte in generale, si sono prodotti vasti incendi contrastati con molte difficoltà. Abbiamo cercato di capirne le cause con Luca Giunti, valsusino, conoscitore del territorio per lavoro e per vocazione, oltre che impegnato in prima persona nelle operazioni di contrasto degli incendi. Da un evento non comune ma locale, ne è scaturito un discorso di valenza generale sulla montagna, sull’abbandono, sulla gestione delle emergenze e la cura quotidiana del territorio. Cura che non può essere delegata, ma che si produce soprattutto nelle pratiche quotidiane, scomparse con l’abbandono delle attività umane in montagna. Gli incendi, infatti, non sono un’emergenza, ma il risultato di un accumulo di concause di cui l’uomo ha le principali responsabilità. E di cui in fin dei conti è lui a pagare il prezzo: la natura farà prima o poi a meno della specie umana, con o senza incendi. Siamo noi che dobbiamo capire come vogliamo vivere sul pianeta che abitiamo.

Il Piemonte ha una storia abbastanza lunga di incendi boschivi nel periodo invernale; mentre nel resto d’Italia – in particolare al Sud e nella Sardegna – si parla di incendi boschivi in estate, da noi ci sono contesti diversi per cui normalmente gli incendi si verificano in autunno/ inverno. Negli ultimi quindici giorni però, gli incendi scoppiati in Piemonte sono stati molto più gravi del solito, e ciò sostanzialmente per due ragioni, una ragione lontana e una ragione più vicina. La prima è che da cinquant’anni abbiamo completamente abbandonato la manutenzione del nostro territorio e quindi si è accumulato al suolo, non tanto sugli alberi ma al suolo, un tappeto di 30-40 centimetri di materiale pronto a essere incendiato. La seconda causa è il perdurare di una siccità che dura da tre mesi, e di cui peraltro ancora non si vede la fine. Allora questi due elementi, in concomitanza con una giornata di forte vento, e unite all’incoscienza, al dolo o la pazzia umana, hanno fatto sì che si accendessero e si diffondessero più fuochi in Valsusa, mentre già bruciavano altre parti del Piemonte.

Direi quindi che ci sono alla base un po’ di concause, dal dolo vero e proprio al cambiamento climatico, dall’abbandono dei boschi alle scelte economiche su come gestire i territori e le emergenze, di cui la principale a mio avviso è la perdita di una cultura di manutenzione quotidiana del territorio.

Il fenomeno dell’abbandono del territorio, all’origine della gravità degli incendi di questi giorni, non è una particolarità del Piemonte, ma è diffuso in tutto l’arco alpino, le uniche aree che si salvano sono il Trentino Alto Adige, una certa parte del Veneto, una parte del Friuli e la Val d’Aosta (e questo per ragioni storiche, politi- che, monetarie, alcune di queste sono regioni a Statuto speciale, per cui hanno più soldi e possono permettersi di finanziare di più servizi o iniziative che aiutano le persone a rimanere in montagna). In Piemonte questo abbandono è particolarmente vistoso, tutta la rete dei sentieri, di cui oggi utilizziamo una minima parte a fini strettamente escursionistici, cent’anni fa, che l’escursionismo non esisteva per nulla, quella rete di percorsi ca- pillare e diffusissima non era altro che la rete che collegava tra di loro decine e decine di borgate, piccole, piccolissime, più grandi, stagionali, ecc.

Per quanto riguarda la siccità, complice nel favorire gli incendi, certo non era prevista, ma tanti scienziati e meteorologi direbbero che alla base c’è una grande influenza del fattore umano poiché è dovuta al cambia- mento climatico il quale è innescato da molte delle nostre azioni.

Lo stesso spopolamento è stata un’azione umana: al contrario di quanto succede oggi con le popolazioni che migrano dal centro dell’Africa, i nostri nonni o genitori non sono andati via per carestia o perché li ammazzavano; certo sono andati a vivere in condizioni migliori, nel senso che tra fare il contadino in montagna o andare in fabbrica in questa lo stipendio era garantito, però è stata in un certo senso una scelta, una scelta collettiva, una scelta politica, forse all’epoca una scelta inevitabile. Forse. Quel che è certo è che oggi si è rivelata una scelta poco lungimirante, una scelta dell’immediato. Questa è la causa principale, nel senso che gli incendi di piccola entità ci sono sempre stati, ma con il territorio pulito, quindi con poco combustibile da bruciare, e con centinaia di persone tutti i momenti presenti sul territorio, questi eventi partivano e e finivano avevano un cortissimo raggio di azione, e questa cosa è durata ancora fino a pochi anni fa: partivano degli incedi che riuscivamo a contenere, uno o due giorni, qualche squadra dei volontari dell’AIB (l’Anti incendi boschivi), un po’ di paura, un po’ di investimenti e si tappavano; quest’anno è arrivato al culmine un processo che si accumulava da qualche decennio: tanto materiale combustibile, tanta siccità, e poi una domenica mattina di vento è bastato che qualcuno accendesse un fiammifero.

Detto in altri termini, magari questo incendio sarebbe potuto non partire domenica scorsa, però noi negli anni abbiamo creato delle condizioni perfette per gli incendi. Quindi, lo dico con molta tristezza e con le lacrime agli occhi – lacrime di commozione e lacrime fisiche perché sto nel fumo da cinque giorni – noi raccogliamo i frutti di quello che abbiamo seminato negli ultimi venti-trent’anni. Se posso utilizzare un’espressione forte, abbiamo bisogno di invertire rotta, di esaltare un animo che definirei femminile e di smorzare un animo maschile, nel senso che abbiamo bisogno di recuperare una attenzione, una cura quotidiana alle piccole azioni che salvaguardano, aggiustano, custodiscono il territorio; questa io non la considero una questione di genere – non vuol dire che i maschi abbiano esclusivamente uno spirito maschile e viceversa – ma è una questione di definizione, la considero uno spirito femminile. Al contrario noi ci siamo abituati a fare azioni solamente di tipo maschile, nel senso di maschilista, fallocratico, un’impresa una volta ogni tanto, grandi mezzi, grandi azioni, per tre-quattro giorni, poi basta. Questo approccio è sbagliato, il pianeta ce lo dice che è sbagliato e che serve una cura quotidiana capillare e continuativa del territorio.

Purtroppo però, è un po’ brutale ma bisogna dirlo perché è una questione insormontabile, è l’emergenza quello che fa alzare di più il PIL, piuttosto che la prevenzione. La crescita del PIL è direttamente proporzionale alla crescita delle emergenze e se noi continueremo a usare il PIL come unico metro per misurare se le cose funzionano allora vivremo continuamente di emergenze, con le tragedie che ne conseguono.

Per quanto riguarda le recenti riforme, come la Riforma Madia e la conseguente liquidazione del Corpo forestale dello Stato, io non sono tanto esperto da poter esprimere un giudizio motivato e compiuto, non conosco i dettagli, però vedo i risultati, e non da oggi; vedo i risultati di una trasformazione, di un accentramento dei poteri, la costruzione di una macchina per certi versi molto pronta a gestire grandissime emergenze, ma molto meno pronta – perché rigida – a gestire medie e piccole emergenze. Certamente far confluire il Corpo forestale dello Stato sotto l’Arma dei Carabinieri da questo punto di vista non è stata una scelta lungimirante, e in questi giorni, ma era già successo qualche mese fa, sull’operatività di campo questa differenza rispetto a prima si è vista e si vede. Sinceramente però, con un incendio di queste proporzioni, non credo che se fosse partito l’anno scorso con ancora il Corpo forestale vero e proprio sarebbe cambiato granché. È possibile, ma io non ho gli strumenti per giudicare, che nelle prime ore della prima giornata la partenza di questo specifico incendio (sopra Bussoleno) possa essere stata sottovalutata, quel che è chiaro è che come singoli e come comunità, quindi come società nel suo complesso, abbiamo bisogno di intervenire molto più concretamente e quotidianamente sul territorio, oppure non potremo far altro che rincorrere le situazioni di emergenza.

Poi anche la situazione di emergenza, che però viene dopo, potrebbe essere gestita meglio. Devo però anche dire che in questi giorni tutti noi abbiamo visto all’opera centinaia di uomini e di donne dell’AIB, nessuno che si è tirato indietro, tutti che tornano a casa soltanto il tempo di lavarsi, mangiare qualcosa e poi ripartire, non mi sembra di poter dire che oggi il problema principale sia la penuria di mezzi sul fuoco, si potrebbe certamente fare qualcosina di più, per carità, sempre si può fare di più, però secondo me mettere troppa luce sul cono dell’emergenza toglie la luce sulla prevenzione, e quello su cui noi siamo difettosissimi è la prevenzione.

Quando si va sul campo, poi, è fondamentale la conoscenza del territorio, la conoscenza spicciola del territorio, e questa è la funzione che mettono in campo in questi giorni i guardia parco come me, che non abbiamo compiti specifici di contrasto al fuoco, ma abbiamo compiti di assistenza logistica e di indirizzo. Ti dico quello che ho fatto io giovedì, ad esempio: arriva una squadra dei vigili del fuoco di Avigliana che ti dice «dobbiamo andare a tutelare le case in località Arcossi, come ci andiamo?», «vienimi dietro che ti ci porto, è inutile che ti spiego sulla mappa “là c’è una pista forestale poi là c’è una curva, ecc.”». Questa è la conoscenza del territorio, che è anche funzione del fatto che si man- tengano le squadre dell’AIB sul territorio, e che si incentivi il fatto che quando non c’è l’emergenza le persone, che siano AIB o normali cittadini, usino il territorio, lo conoscano, questo secondo me è un aspetto fondamentale.

Del resto è significativo che i questi giorni, parlando con diverse persone, dai volontari a quelli del Corpo forestale dello Stato piuttosto che con la gente che vive il territorio, tutti individuano le stesse cause e tutti ti dicono la stessa cosa: con la condizione in cui versava il territorio «poteva succedere da un momento all’altro», e «la cosa “eccezionale” è che non sia successo prima». È successo domenica scorsa e oggi, che siamo nella domenica successiva, non è ancora stato fermato. Su questo, a parte forse un certo ritardo nell’assunzione di responsabilità per un incendio così grande, posso dire che ci son stati momenti in cui avendo, come dicevamo all’inizio, molti incendi sul territorio piemontese, avremmo tutti avuto bisogno di avere tre o quattro aerei Canadair invece dei due che erano disponibili. Oggi infatti il Piemonte non dispone di nessun Canadair proprio, nel senso che i Canadair sono una flotta nazionale dislocata in una serie di aeroporti considerati baricentrici rispetto alle zone dove potenzialmente possono operare; quelli più vicini a noi che intervengono in Piemonte sono i Canadair di stanza a Genova. Ecco, questo potrebbe esse re un interessante punto di riflessione per il futuro: in Italia i Canadair sono una ventina, anche meno mi sembra, potremmo stabilire che abbiamo bisogno di raddoppiarne la flotta. Questa potrebbe essere una scelta politica e sociale importante, e da cittadino italiano, e da pacifista, se qualcuno mi dicesse che venti Canadair in più costano, io gli direi che so dove andare a prendere i soldi: invece di costruire e comprare aerei da guerra, invece degli F35, compriamo venti Canadair che almeno sganciano bombe d’acqua. Questo potrebbe essere l’unico risultato positivo di una tragedia di queste proporzioni, cioè farci rendere conto tutti che abbiamo molto più bisogno dei Canadair che degli F35, molto più bisogno di un’autobotte che di un carrarmato, molto più bisogno di tornare a frequentare a piedi quotidianamente il nostro territorio piuttosto che riversarci tutti i sabati e domeniche nei centri commerciali.

Vorrei essere ancora più brutale, di nuovo con il massimo di rispetto e della partecipazione umana, forse è giusto che il fuoco non si sia ancora fermato, perché, se si fosse fermato martedì o mercoledì, avremmo avuto una scarsa copertura mediatica di questo evento e sarebbe passato come qualsiasi incendio: «ogni tanto succede, però la macchina funziona, l’abbiamo tamponato, ecc.». La nostra specie non impara, homo sapiens non impara. Abbiamo bisogno di prendere delle batoste, ma forti, e spesso non bastano. Forse abbiamo bisogno di una tragedia così grande per capire che dobbiamo fare qualcosa: dobbiamo cambiare un modello di sviluppo, non basta che il prossimo mese ci sia un’ondata di volontari in più per andare a pulire un po’ il bosco.

Allargando ancora la prospettiva – mi fate nuovamente fare un discorso non politicamente corretto, ma sono contento perché non sopporto i discorsi politicamente corretti – quella che stiamo vivendo è una tragedia ed è una tragedia umana, perché ci sono persone che sono state evacuate dalle proprie case, che hanno visto il lavoro di tanti anni o dei loro nonni bruciato. Ma se la guardiamo in un’ottica naturale o in un’ottica evolutiva, tutto questo non conta nulla, può essere brutto da dire ma non conta davvero nulla. Gli incendi, in un contesto che fosse completamente naturale, sono una delle componenti che cambiano o sconvolgono le condizioni del sistema, sfavoriscono alcune specie animali e vegetali ma ne favoriscono delle altre, ci sono specie di insetti e di piante che sono strutturate per resistere al fuoco e anzi per immediatamente dopo esplodere nel loro ciclo vitale approfittando delle condizioni circostanti, in cui gli è stato fatto il deserto e loro sono le uniche in grado di sopravvivere e colonizzare.

È chiaro che noi non siamo più in un contesto naturale e questo fa sì che si creino dei danni agli aspetti che dicevamo prima o che venga resa l’aria irrespirabile ecc. Ma certamente la natura, soprattutto se la guardiamo nei suoi tempi millenari, di un incendio di questo tipo se ne fa veramente un baffo. Anzi, anche qui, attenzione domani o la prossima settimana, quando questo incendio finalmente sarà spento, attenzione a non partire con l’idea che bisogna riforestare; forse non bisogna riforestare, forse è meglio lasciar le cose così come stanno, oppure piantare pochi nuclei di alberi. Vi faccio un esempio: per paradosso il parco in cui lavoro io (il Sito di Interesse Comunitario delle Oasi xerotermiche, sopra Foresto, che è bruciato in questi giorni), da qualche anno ha ottenuto un finanziamento dall’Unione europea per togliere il bosco. Abbandonando il territorio il bosco ritorna, tornano gli arbusti che coprono i prati e i pascoli e le praterie, mentre quelle praterie prati e pascoli sono degli habitat piuttosto rari nell’Unione europea, ricchi di orchidee e di specie mediterranee, e quindi noi con il taglio mirato e con il pascolamento guidato avevamo messo in piedi un progetto per ridurre il bosco a favore delle praterie. Il fuoco, che ci sta distruggendo tutto, da questo punto di vista ci sta facendo un favore!

Poi, per quanto riguarda gli ungulati, i cervi, i caprioli, i cinghiali, i camosci, presenti nelle zone del fuoco al 90% se ne saranno andati, qualcuno sarà morto perché soffocato dal fumo, però generalmente non patiscono così tanto, per la gran parte si saranno spostati; patiscono molto gli insetti, quelli che non possono volare via, patiscono ovviamente molto le piante. Speriamo, nel disastro che abbiamo avuto, che almeno questo riduca la presenza della processionaria, che è un insetto parassita particolarmente fastidioso, il quale però ha avuto una grande espansione proprio grazie a noi, perché negli anni siamo stati noi ad avergli creato l’habitat ideale, come del resto ai cinghiali. Certo una gran quantità di questi insetti sarà bruciata ma non c’è solo la riduzione immediata, soprattutto per gli animali, per tre-quattro-cinque-sei anni lì non avranno da mangiare quindi saranno ridotti dalla selezione naturale e questo contribuirà a ridurne il numero. Così come, in un versante diverso ma con un meccanismo assolutamente identico, il branco di lupi che gravita sul Moncenisio con ogni probabilità non è rimasto bruciato o soffocato dall’incendio ma si sposterà sicuramente perché nei prossimi due-tre-quattro anni su quest’area ci saranno pochi degli animali che loro possono mangiare, quegli animali sono erbivori e a loro volta non avranno per qualche tempo l’erba di cui nutrirsi. La natura funziona così.

Io sono un’evoluzionista, e non sono credente, quindi sono fatalista: la nostra specie si estinguerà, se non subito fra cento o mille anni, e non credo che lasceremo chissà quale rimpianto nelle altre specie di questo pianeta. Devo dire che ho scarsissima fiducia nelle capacità di comprensione, di una comprensione vera, che cambi i comportamenti dell’essere umano; ma posso spingermi a questo tipo di riflessione: questo incendio è successo in Valsusa, oltre che in altre valli, e la Valsusa negli anni ha dimostrato di essere una terra un po’ speciale, non so perché ma succedono cose strane qui. Vogliamo sperare – lo metto con il punto interrogativo – che da questo episodio e da questo territorio nasca una consapevolezza più forte di quello che dobbiamo fare come cura quotidiana del territorio, tale da allargarsi anche al resto dell’Italia? Io lo spero sinceramente. Per noi. Perché quello che è in ballo è il futuro della nostra vita su questo pianeta, del nostro modo di starci su questo pianeta, è in gioco la nostra possibilità di viverci meglio, più sereni, più pacifici… Il futuro del pianeta e della vita su questo pianeta, quelli non sono in ballo, quelli continueranno tranquillamente senza di noi. Il pianeta e la vita ci sopravviveranno; per questo pianeta noi non siamo niente di più che un fastidio, una crosticina di quelle che vanno grattate via per guarire una ferita.

Susa, domenica 29 ottobre 2017

Il testo è il frutto di una chiacchierata fatta dalla redazione di Nunatak con Luca Giunti, proprio nei giorni in cui le fiamme divoravano i boschi della valle. Anche le foto che accompagnano l’articolo, scattate nei boschi della Valsusa in questi giorni, sono di Luca Giunti.

Un ringraziamento particolare a Luca per il tempo che ci ha dedicato in un momento così impegnativo.

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

UN REGALO AI CARABINIERI

Il 2017 è balzato in testa alle classifiche delle emergenze incendi degli ultimi anni, sia come ettari di bosco andati in fumo che come richieste di soccorso aereo, quasi raddoppiate rispetto a cinque anni fa. un simile fenomeno è sicuramente conseguenza del progressivo abbandono del territorio di cui abbiamo parlato con Luca Giunti nell’articolo accanto. Con ciò si intrecciano gli effetti della recente riorganizzazione del settore anti incendio in Italia: dal 1 gennaio 2017, infatti, in conseguenza della cosiddetta Riforma Madia, voluta dalla ministra della Pubblica amministrazione in nome del “risparmio” e della “semplificazione”,  è entrata in vigore la soppressione del Corpo forestale dello Stato, con la quale «si è notevolmente indebolita quell’opera di presidio sul territorio e di prevenzione che era propria dei nostri uomini», dichiara il coordinatore nazionale dei Forestali per il CONAPO, il sindacato autonomo dei Vigili del fuoco.

Gli 8000 forestali sono stati dislocati e ridistribuiti: la quasi totalità (6400) sono confluiti nell’Arma dei carabinieri, i pochi altri tra i Vigili del fuoco (360) e la Pubblica amministrazione (1240). La logica a cui risponde tale riforma è evidente: l’accentramento e la militarizzazione di quei corpi che – seppur statali – conservavano ancora il difetto di essere relativamente “a portata” delle comunità locali.

Inoltre, il ruolo di questi nuovi “carabinieri forestali” è stato ben chiarito dalla circolare del 7 luglio con cui il comando dei carabinieri ha ordinato alle ex guardie forestali cosa fare in caso d’incendio: non intervenire, non fare nulla, e limitarsi ad avvisare i Vigili del fuoco.

Peccato che, come denuncia un comunicato stampa di Pro Natura Piemonte proprio a proposito dei recenti incendi in Valsusa, «i Vigili del fuoco hanno fatto e fanno un ottimo lavoro, ma la gestione degli incendi boschivi, cioè il loro controllo affinché non si verifichino determinate situazioni di pericolo e si salvaguardi il patrimonio forestale e ambientale, non è il loro lavoro o, perlomeno, quello di cui possono avere la direzione. Questo era il compito del Corpo forestale dello Stato, ora assorbito nell’Arma dei carabinieri con altri incarichi».

In un colpo solo, migliaia di uomini e donne sono stati co-stretti ad abbandonare compiti di manutenzione del territorio, tra cui la difesa dagli incendi boschivi, passando armi e bagagli a operazioni repressive e di controllo sotto la direzione della benemerita.
Non solo, anche i mezzi prima in dotazione al Corpo forestale sono confluiti nei Carabinieri. Fino all’anno scorso, la Forestale disponeva di una flotta di una trentina di elicotteri in grado di intervenire per operazioni di spegnimento; oggi sono diventati tutti di proprietà dei Carabinieri, i quali ne hanno trattenuti per sé circa la metà, convertendoli ad altre finalità. gli altri, assegnati ai Vigili del fuoco, si trovano in gran parte parcheggiati negli hangar, bloccati da una serie di complicanze burocratiche, tra revisioni dei protocolli di volo e fermi manutentivi, mentre le fiamme divorano centinaia di ettari di bosco.

Attenzione però, la flotta italiana conta anche su 16 Canadair, dislocati su 14 diverse basi sul territorio nazionale, che hanno la particolarità di essere gestiti da ditte private, incaricate delle operazioni di spegnimento tramite gare di appalto e finanziate da soldi pubblici, incassando cifre folli per ogni ora di intervento: 15.000 euro l’ora per un Canadair, 5000 per un elicottero. Ora, con un business dello spegnimento incendi quasi completamente privatizzato e sottratto alla gestione pubblica, non è necessario essere dei fanatici complottisti per notare una situazione che sembra fatta apposta per dar fuoco alle polveri. Nessun privato infatti gestirebbe una società di Canadair – che non possono far altro che spegnere incendi – senza la certezza di entrate in grado di coprire spese di volo, manutenzione dei mezzi, stipendi, profitti, e dunque senza la ragionevole certezza di un cer- to numero di roghi ogni anno… gli incendi insomma, per mantenere in piedi la baracca, ci devono essere.

In una situazione del genere non stupisce che politici, forze dell’ordine, giornali e televisioni facciano di tutto per parlar d’altro, per stornare l’attenzione dalle vere cause e responsabilità e gridare alla ferrea repressione contro i piromani. Mentre il ministro Minniti urla che «lo Stato c’è!» e i media esaltano i successi delle forze dell’ordine, «arrestati undici piromani!», il WWF rilancia chiedendo «pene esemplari per i piromani». non importa che la gran parte dei presunti inneschi si siano rivelati delle bufale, inesistenti, inefficaci, o dei semplici barbecue. Anche qui, è perfettamente normale che se migliaia di agenti sono stati obbligati a compiti repressivi, qualche cosa, invece di spegnere gli incendi, dovranno fare.

 

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