RASSEGNA STAMPA DEL 30/11/18

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Da Jacobin – Italia /30 novembre 2018

RiMaflow Resiste: il conflitto di tutti

di Marina De Ghantuz Cubbe

Doveva essere uno sgombero, è diventata una festa. L’autogestione operaia della fabbrica recuperata di Trezzano sul Naviglio evita lo sfratto e rilancia l’idea di mutualismo e solidarietà

La più importante esperienza di autogestione operaia in Italia doveva finire il 28 novembre 2018. Invece è arrivata all’apice del suo percorso conflittuale e da qui non può che partire con un nuovo inizio.

I 120 lavoratori della RiMaflow, fabbrica recuperata a Trezzano sul Naviglio dal 2013, dovevano essere sfrattati. Persone arrivate da tutta Italia in mattinata si sono incontrate davanti ai cancelli di via Boccaccio. Erano pronte a difendere la fabbrica e invece si sono ritrovate a festeggiare una vittoria. Si è capito quando i lavoratori sono tornati dalla prefettura di Milano con un protocollo d’intesa firmato dalla cooperativa RiMaflow e dall’Unicredit Leasing (che rivuole indietro i capannoni industriali). L’accordo prevede il rinvio dello sfratto, lo rimanda di sei mesi. Il tempo utile alle lavoratrici e ai lavoratori per trovare un’altra sistemazione; inoltre, come richiesto dalla RiMaflow, Unicredit Leasing ha preso l’impegno di contribuire al fondo Caritas per il sostegno al lavoro. Risultati concreti che coincidono con l’impegno, altrettanto concreto, della cooperativa: lavorare.

Masssimo Lettieri, il presidente della cooperativa agli arresti domiciliari perché coinvolto in un’inchiesta giudiziaria per traffico illecito di rifiuti (un’accusa ritenuta infamante perché in pieno contrasto con i principi portati avanti dai lavoratori in tutti questi anni), era presente nella viva voce di Gigi Malabarba e Luca Federici che hanno parlato a nome di tutti una volta tornati dal tavolo in prefettura e dal corteo per le strade della periferia industriale milanese di Trezzano sul Naviglio. Ora che lo sgombero non è più un pericolo imminente e ci sono le condizioni per poter andare avanti, i due rappresentanti hanno parlato di RiMaflow 2.0 e di piano industriale da decidere pensando alla nuova sede che ospiterà le loro attività.

Dal 2009 a oggi

Ma come hanno fatto degli operai che dal 2009 sono stati prima in cassa integrazione e poi licenziati ad arrivare fino a questo punto, tanto da poter rivendicare l’inizio di un nuovo percorso di autogestione? Oltre al coraggio di non piegarsi alle logiche della precarietà e del lavoratore usa e getta, hanno dimostrato che nessuno, neanche le istituzioni, sono in grado di scrivere la parola fine alla loro esperienza. In questo periodo in Italia  è quantomeno un’anomalia. Hanno anche dimostrato che quando la giustizia delle norme non coincide con la giustizia sociale la strada da seguire è quella dell’autogestione conflittuale e del mutualismo. Entrambi questi processi hanno come presupposto l’esistenza di una relazione che in primis si instaura con chi è nelle tue stesse condizioni, aggregazione e solidarietà concreta tra lavoratori che hanno gli stessi interessi e simili rivendicazioni.

Nel 2009 erano sul tetto della fabbrica per protestare, nel 2018 sono ancora insieme a dare vita a un nuovo inizio. Poter lavorare è sempre stato il punto di partenza e di arrivo, è sempre stato il motivo che ha dato loro la forza di dimostrare la giustezza delle loro azioni. Il modo in cui rivendicare tutto ciò è stato di volta in volta condiviso, ascoltato e sintetizzato.

Sarebbe sbagliato pensare che la RiMaflow sia riuscita a realizzare un’esperienza esemplare solo grazie alla presenza di persone come Malabarba, Lettieri e Federici che hanno avuto una storia importante di militanza politica e sindacale. Donatella Marzola ad esempio non aveva mai partecipato prima del 2009 ad azioni conflittuali né a proteste; questo periodo, che va avanti ancora oggi, per lei è stata l’occasione di maturare anche a livello personale: «Chi lavorava faceva le sue ore e gli altri fuori – raccontava nel 2015, dopo i primi due anni di occupazione – davanti la palazzina, dentro, con le capanne e tutto il resto a fare il presidio. Dormivamo là col gelo. Io sono stata sempre molto riservata, timorosa, invece questa situazione mi ha insegnato a rispondere, a non aver paura e a dire la mia. È stato duro ma mi ha rinforzato caratterialmente. Mi ha temprato. Nel male mi ha dato del bene». Il conflitto è di tutti, è alla portata di tutti perché ognuno può dare il suo contributo. La consapevolezza che ognuno sia capace di essere parte del conflitto ha permesso a tutti di sentirsi parte attiva del gruppo e al gruppo di essere coeso. Il conflitto è di tutti così come il lavoro è un diritto di tutti perché ognuno possa contribuire a migliorare la società.

La coesione di un gruppo di lavoratori solidali tra loro si realizza più facilmente anche nel momento in cui c’è una controparte con la quale confrontarsi o contro la quale scontrarsi. L’imprenditore prima, la proprietaria dei capannoni poi. L’autogestione conflittuale ha portato ad un confronto serrato, complesso e a volte doloroso per cercare di ottenere un riconoscimento istituzionale di un’esperienza che intanto dal 2013 rimbalzava sui giornali, le televisioni, gli studi accademici, raccoglieva il sostegno di associazioni laiche e religiose, politiche, sindacali, di singoli cittadini e persone della cultura e dello spettacolo.

L’autogestione conflittuale

I rapporti intessuti in tutti questi anni con il territorio; con la rete Fuori Mercato che raccoglie esperienze di economia solidale, riappropriazione del lavoro, delle terre e degli spazi; con la Caritas, con Libera contro le mafie e con la Rete dei numeri pari hanno permesso che la fabbrica diventasse da mero luogo di produzione a punto di riferimento per costruire un tessuto sociale e solidale in cui riconoscersi e su cui poter fare affidamento. Il mutualismo e l’apertura degli spazi alla cittadinanza, ai migranti e agli artigiani che alla RiMaflow hanno trovato un lavoro, hanno reso questo spazio un presidio di legalità e giustizia sociale. Da rifiuti a risorse: persone che sono state espulse o rifiutate dal mercato del lavoro hanno risposto dando alla produzione una direzione ecologista (riuso e riciclo). Riappropriazione del lavoro e riappropriazione di sé, del proprio valore e di quello altrui: bisogni essenziali che i lavoratori della RiMaflow hanno reso possibile ottenere.

Le fabbriche recuperate non sopravvivono attraverso finanziamenti, né l’investimento di grandi capitali, bensì  grazie ai rapporti di solidarietà che si instaurano dapprima tra i lavoratori; poi tra lavoratori e territorio. Il tipo di produzione ruota attorno a un’idea di economia e di società in cui non deve prevalere l’interesse individuale ma appunto la solidarietà e il mutualismo.

Tutto questo rende la RiMaflow un’esperienza a cui non può esser messa la parola fine. Anche se dovesse cambiare il luogo di produzione. I capannoni della vecchia Maflow sono stati prima vissuti dagli operai quando a lavoraci erano in 320; poi attraverso i vari passaggi societari il numero dei lavoratori è diminuito fino alla chiusura definitiva nel 2012. Anche gli spazi, prima abbandonati e poi recuperati, hanno fatto parte integrante del processo di rigenerazione urbana, ecologica e personale nonché di riappropriazione del lavoro: anche i capannoni sono passati da rifiuto a risorsa. Massimo Lettieri ha sempre dimostrato di essere molto legato a quella fabbrica, mettendo in evidenza quanto un luogo denso di significato possa contribuire a livello motivazionale per portare avanti una battaglia: «A partire da tutte le crisi che ci sono state dal 2009, la battaglia della RiMaflow è stata l’unica con una sua continuità perché abbiamo occupato, siamo qui e stiamo provando a fare questa esperienza con la cooperativa RiMaflow. Non me ne sono mai andato da qua. Non sono mai fuggito». Allo stesso tempo il luogo fisico può essere un ostacolo, un impegno che può addirittura indebolire l’esperienza perché la sua manutenzione richiede uno sforzo che toglie spazio ed energie alla produzione.

Il percorso di autogestione conflittuale e mutualismo di RiMaflow è arrivato ad un livello di maturità tale per cui non ci sono più spazi da salvare, ma esiste un’intera esperienza che a questo punto ha la possibilità di trovare il suo luogo ideale senza il rischio di perdere valore. Rivendicare il fatto che un nuovo inizio presuppone un nuovo spazio significa mettere in evidenza ancora una volta che l’obiettivo è concreto e per questo nobile: l’obiettivo è lavorare. RiMaflow non poteva terminare il suo percorso il 28 novembre 2018 perché sin dal 2009 i lavoratori e le lavoratrici hanno posto le basi per realizzare un’esperienza che ha permesso al gruppo di essere coeso, di fare mutualismo, di raccogliere la solidarietà da tutta Italia. E quando non serve più difendere un luogo fisico per difendere un’esperienza significa che questa è arrivata davvero a un punto di svolta e soprattutto che non si può più fermare.

*Marina De Ghantuz Cubbe, giornalista, collabora con La Repubblica e altre testate. Studiosa delle formazioni sociali contempranee e, in particolare, impegnata in un lavoro di ricerca sulle fabbriche recuperate in Italia.

Da Zeroincondotta – 30/11/18

Milano/RiMaflow: la vittoria della solidarietà

Di Redazione

Dai nostri inviati a Trezzano sul Naviglio, un lungo reportage dalla fabbrica recuperata sulla mobilitazione che ha impedito lo sgombero che era stato annunciato per il 28 novembre.

In questi anni tante volte abbiamo sentito uscire da molte labbra la parola “solidarietà”. Per chi ha frequentato con assiduità i movimenti sociali c’è stata più di un’occasione per capire come la solidarietà di classe sia sempre stata fondamentale in ogni processo di lotta e di cambiamento. E come oggi, dopo anni di crisi, di disoccupazione, di precarizzazione del lavoro e di distruzione dei diritti, lo sia ancora di più.

Certo ci è capitato anche di incrociare qualcuno che, usando questo vocabolo a sproposito, se lo è fatto scappare dalla bocca in una maniera non troppo sincera. Ma, al contrario, quando solidarietà è stata declinata con altri termini come “mutuo soccorso” e “resistenza” è diventava un’arma efficace per sostenere in modo concreto le tante forme dispiegate del conflitto sociale e per sperimentare nuovi modelli di relazione non gerarchici e produttivistici, non fondati sull’esclusione, ma ispirati a principi orizzontali e reticolari.

Tutte queste cose le abbiamo trovate la mattina presto del 28 novembre, concentrate davanti ai cancelli e sul piazzale della RiMaflow di Trezzano sul Naviglio. C’erano il sostegno e l’appoggio portati da altri lavoratori della zona, da ragazzi dei centri sociali, da rappresentanti di sindacati grandi e piccoli, da contadini biologici e da attivisti delle reti di produzione e distribuzione “fuori mercato”; da artisti conosciuti come Moni Ovadia o da vecchi volti noti di tante battaglie di movimento, da preti di strada e da rappresentanti della Caritas… fino a tanti semplici cittadini. Era una mobilitazione chiamata con un tam tam dal basso che aveva portato, in quel paese della cintura milanese di antica tradizione operaia, diverse centinaia di persone, venute da tutta Italia per impedire lo sfratto di una esperienza di resistenza e di mutualismo che, nel corso degli anni, aveva ricevuto attestati di vicinanza, di simpatia e di “complicità” nei luoghi più disparati della penisola.

La storia di RiMaflow

La storia dei cinque anni di recupero della Maflow e del progetto di autogestione attraverso l’esperienza di RiMaflow, l’ha raccontata un Gigi Malabarba, tonico e appassionato come non mai, dall’impianto di amplificazione montato per l’occasione. La fabbrica, prima della chiusura e del trasferimento della produzione in Polonia, produceva tubi per condizionatori ed era leader nella realizzazione di componenti per auto. Oltre 300 lavoratori furono licenziati e mandati a casa. Una parte di loro, invece di deprimersi e disperarsi decise di intraprendere, a partire da 2009, una dura lotta che portò all’occupazione dello stabilimento. Per impedire che i cancelli chiudessero per sempre si decise di sperimentare soluzioni di lavoro alternative. Tra gli occupanti c’era un rappresentante sindacale della Cub particolarmente ostinato, Massimo Lettieri. Fu mandato ad incontrare il liquidatore, per capire quale fosse la situazione reale dell’azienda, per vedere se c’erano le condizioni per trovare un nuovo investitore. Quando arrivarono i nuovi compratori polacchi esternarono la loro intenzione di tenere solo dipendenti non iscritti al sindacato. Inoltre dimostrarono un’assenza totale di progettualità. Con quelle condizioni, la fine della Maflow era segnata. Per impedire lo smantellamento della fabbrica si tennero scioperi, picchetti, manifestazioni e diversi incontri in Prefettura a Milano. Tutta questa mobilitazione non riuscì ad impedirne la chiusura definitiva nel mese di dicembre del 2012.

Di fronte a tanti nulla di fatto, un gruppo di operai decise di fare come in Argentina e di dar vita a “Occupy Maflow” che, in poco tempo, si trasformò in “RiMaflow: fabbrica recuperata”. Dalla produzione di tubi di condizionamento si passò allo smontaggio, al riciclo e al riuso di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Nacque la “Cittadella dell’altra economia” e una cooperativa che elesse come presidente Massimo Lettieri, quel sindacalista cocciuto che non si era mai arreso ai padroni che avevano dichiarato il fallimento, portando i macchinari dell’azienda altrove. Nel corso degli anni, alla cooperativa si affiancarono decine di altri soggetti come falegnami, tappezzieri e artigiani che diedero vita alla “Casa del Mutuo Soccorso”. Tra le mura di RiMaflow prese corpo anche la rete nazionale “Fuorimercato”, nel frattempo si consolidò il rapporto con lo spazio sociale RiMake di Milano. In un territorio pesantemente infiltrato dalla ’ndrangheta, cominciarono ad occuparsi anche di antimafia sociale, collaborando con la Masseria di Cisliano, uno dei beni confiscati alle mafie nell’hinterland sud di Milano. Con il supporto degli Archivi della Resistenza di Fosdinovo iniziò pure la produzione dell’Amaro Partigiano, divenuto negli anni un liquore classico degli antifascisti.

Dopo diversi giri societari, lo stabilimento, collocato in un’area di trentamila metri quadri, passò a UniCredit Leasing.

Per i lavoratori di RiMaflow una delle sfide più complicate è sempre stata quella di arrivare a una regolarizzazione delle loro attività, superando l’occupazione della fabbrica. Avendo però sempre chiaro un principio: tutto andava fatto per il bene comune, mai per il profitto privato.

Tutti gli sforzi per la regolarizzazione rischiarono di risultare vani la mattina del 26 luglio del 2018 quando nove persone vennero arrestate per traffico illecito di rifiuti. Tra loro c’era pure Massimo Lettieri, il presidente della cooperativa. Uno dei capannoni della cittadella della RiMaflow venne sequestrato e sul capo di Massimo si abbattè l’accusa infamante di “associazione per delinquere finalizzata al traffico di rifiuti”.

Per lui ci fu l’arresto e la custodia cautelare. Quattro mesi di carcere, poi , da alcune settimane, gli arresti domiciliari. Il progetto sulla lavorazione degli scarti di produzione di carta da parati venne perciò interrotto.

Gigi Malabarba nel suo racconto ha affermato con convinzione: “Se di Massimo si volesse sintetizzare la figura è proprio l’emblema vivente della lotta contro ciò per cui è stato arrestato. Siamo certi di poter dimostrare la sua e la nostra estraneità a questa vicenda e di poterne uscire appena inizierà il processo… e tra un po’ di tempo faremo uscire delle prove sulla provocazione architettata contro Massimo… Non è pensabile che un’esperienza nata per sottrarre alla ‘ndrangheta il traffico di rifiuti, venga accusata di cose così infamanti”.

Una forte intensità emotiva si è raggiunta, quando Lettieri è stato contattato per telefono e la sua voce è stata amplificata dagli altoparlanti, per farla sentire a tutti coloro che erano lì per salvare RiMaflow.

Lo sgombero annunciato per il 28 novembre

Poi Malabarba è arrivato a raccontare dello sfratto per cui in tanti erano arrivati a Trezzano per impedirlo: “Un anno fa, UniCredit Leasing ha abbandonato il tavolo di trattativa e ha chiesto lo sfratto per RiMaflow. O per meglio dire: ha dato lo sfratto all’immobiliare Virum, che aveva in leasing l’edificio. Leasing che, da quando è fallita la fabbrica, non ha più potuto pagare. La banca ha perciò avviato la procedura per arrivare a sgomberare lo stabilimento. Quello che siamo qui a fronteggiare è il secondo sfratto esecutivo con forza pubblica, dopo aver ottenuto un rinvio lo scorso 19 settembre. Questa mattina è il giorno in cui è atteso l’arrivo dell’ufficiale giudiziario con le forze dell’ordine pronte ad eseguire lo sgombero. Noi siamo qui ad aspettarli e vi abbiamo chiamato a raccolta per difendere quella che si è trasformata nella principale esperienza di azienda recuperata del nostro paese, un villaggio solidale dove, attraverso la lotta dei lavoratori, la crisi ha cambiato rotta diventando una nuova opportunità di lavoro per 120 uomini e donne”.

Alla fine dell’intervento del “comandante Gigi” (così ormai molti lo chiamano), il microfono è passato di mano in mano, in tante e tanti hanno voluto esprimere vicinanza attiva nei confronti di un’esperienza solidale che ha tentato di perseguire il benessere delle persone anche in termini di relazioni sociali e occasioni di partecipazione, costruendo iniziative concrete e materiali, sviluppando varie forme di mutuo soccorso e di aiuto ai soggetti sociali più colpiti, costruendo forme di sostegno pratico, “non di mercato”, per soddisfare quelle esigenze collettive che sono state marginalizzate dalla crisi.

Alle 9 tutti i presenti sono stati informati che la situazione si stava sbloccando. In Prefettura era iniziato un incontro con il prefetto, i rappresentanti della cooperativa RiMaflow e di Unicredit (che per la prima volta aveva accettato di sedersi attorno a un tavolo con gli occupanti), con l’imprenditore Marco Cabassi (quello che trovò la nuova sede del Leoncavallo al momento dello sgombero del centro sociale) e il direttore della Caritas ambrosiana Luciano Gualzetti a fare da garanti nella trattativa.

In attesa dell’esito del confronto è continuato il “microfono aperto”, la banda degli ottoni del movimento milanese ha cominciato a sfornare canzoni di lotta, mirabilmente riarrangiate.

Arriva la buona notizia

Verso le 10 e mezza arriva la notizia. Luca, uno della delegazione di RiMaflow, racconta al telefono il punto d’arrivo dell’incontro: “E’ stato sottoscritto un accordo, controfirmato anche dal Prefetto. La data dello sfratto viene posticipata al 30 aprile 2019, per traferire entro quella data le attività di RiMaflow in un altro sito. Abbiamo tempo tempo cinque mesi per nuovi progetti che vedranno lo spostamento della fabbrica e di tutte le attività in un’altra sede, sempre a Trezzano, con l’obiettivo di salvaguardare i 120 posti di lavoro e di crearne altri. È stato lo stesso Prefetto a riconoscere la bontà del progetto e la sua utilità sociale.

Oggi non si conclude il contenzionso, ma inizia un percorso molto impegnativo finalizzato al rilancio delle attività economiche e produttive che consentirà di consolidare il lavoro e quindi il reddito. Avremo il tempo per programmare la RiMaflow 2.0.

C’era stata fatta una proposta da UniCredit Leasing per acquistare noi lo stabilimento. Si trattava di una proposta superiore ai prezzi di mercato per i capannoni di via Boccaccio 1, interamente da bonificare (con i tetti in amianto e il sottosuolo inquinato) e con seri problemi strutturali, che in questi anni ne hanno reso impraticabile la vendita.

RiMaflow e i garanti hanno comunicato che una possibile acquisizione di immobile si indirizzerà, invece, verso una struttura più consona e più efficiente presente nel nostro territorio. Che verrà acquistata da parte di un gruppo di soggetti finanziatori che condividono il percorso di autogestione intrapreso: ciò significherà la definitiva uscita di scena di UniCredit Leasing dopo il 30 aprile”.

La notizia viene accolta da un lunghissimo applauso: partono cori, in tanti si abbracciano, scendono le lacrime su tanti volti felici. Di bocca in bocca passa la parola “vittoria!” che tiene insieme un sentimento di liberazione diffuso.

Un’operaia che lavorava in Maflow negli anni Novanta e che aveva perso il lavoro dopo la decisione di spostare la produzione, e che ora è una delle cuoche nelle cucine di RiMaflow, ride commossa dopo l’annuncio. Aspira con ampi tiri una sigaretta, appoggiata al muro. Gli occhi le luccicano, tiene a freno le lacrime, emozionata dalla gioia, si fa uscire solo pochissime parole: “RiMaflow è la mia vita”.

Malabarba riprende in mano il microfono e annuncia che dal 12 al 14 aprile 2019, prima di andarsene dalla vecchia sede, è stato convocato il “3° Incontro europeo delle imprese recuperate”, realizzato con la collaborazione della Libera Masseria di Cisliano: “Oggi siamo sicuri di poter ospitare l’evento nella nostra fabbrica… Poi, con ogni probabilità, ci sposteremo in uno stabilimento a poche centinaia di metri da qui, sempre a Trezzano. Un luogo più piccolo, maggiormente gestibile e senza i seri problemi strutturali della sede di via Boccaccio… Adesso vi propongo di fare un corteo nella zona industriale e per le strade del paese per dare un’occhiata a dei siti che sarebbero adatti per le attività di RiMaflow 2,0 o 3.0 o 4.0”.

Parte un corteo pieno di allegria, c’è quasi uno stupore diffuso: non si era più abituati alla vittoria… una vittoria così bella poi. La sfilata si ferma davanti all’IperDì, un ipermercato fallito, con tutti i suoi dipendenti lasciati a casa. Qui il “Gigi del Naviglio” si arrampica sul cancello e promette che anche per questi lavoratori RiMaflow farà qualcosa, non li lascerà soli. Poi ci si muove verso un’altra fabbrica ormai abbandonata, l’AutoSystem. E davanti a questo stabilimento si comprende che questa è il sito più accreditato per diventare fra cinque mesi la nuova casa di RiMaflow.

La manifestazione rientra nella vecchia sede: “autogestione e dignità” continuerà ad essere l’orizzonte dei lavoratori di RiMaflow. Davanti ai cancelli una ragazza li attende facendo uscire dalla sua fisarmonica le note di “Vecchia piccola borghesia” di Claudio Lolli. A un vecchio militante degli anni settanta viene da cantare il ritornello: “Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia / Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”.

Un altro suo coetaneo che gli sta di fianco viene da dire: “Dai che da oggi riusciremo a ridere anche con una canzone del vecchio indimenticabile Claudio…”.

 

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